“Dal binario 22 di Napoli Centrale, ieri pomeriggio alle 16 e 20 sono saliti in treno una quarantina di studentesse e studenti in gita, aspettate me, gli ha urlato il professore. Età: fra i 15 e i 17. Almeno la metà, a occhio, aveva la maglia del Napoli.
Solo che non stavano partendo. Stavano tornando a Milano. Una scena simile l’ha colta nelle settimane scorse il fotoreporter Sergio Siano, sguardo raffinato e originale sulla città. Un gruppetto passeggiava per i Quartieri vestito d’azzurro. Un’altra scolaresca, loro di Mantova. Saranno forse venuti a vedere la tomba di Virgilio e se ne sono andati con la maglia di Osimhen. L’altro giorno passeggiava sul lungomare la classe di un liceo romano. Avevano regalato a un’amica che compiva diciott’anni una giornata di gruppo a Napoli. Treno, pizza, un paio di musei, San Gregorio Armeno, i luoghi delle serie tv e la Scudetto Experience.
Sono loro che dobbiamo guardare, per misurare la distanza tra questo scudetto e gli altri due. È facile dirsi con quale souvenir sarebbero rientrati nelle loro città trentatré anni fa. Nessuno. Perché non sarebbero venuti. È una rivoluzione che attraversa il turismo, il calcio, la politica. Nonostante i cori d’odio negli stadi, nati e cavalcati in trent’anni da alcuni partiti per scopi elettorali, esiste una nuova mitografia che Napoli sta costruendo. È un patrimonio da proteggere e coltivare, un patrimonio sentimentale prima ancora che economico. Ne fanno parte Elena Ferrante, Mare Fuori, Kvaratskhelia.
È altrettanto interessante il riflesso domestico di questo scudetto per teenager, lo scudetto di chi non aveva visto gli altri due. Per un milione e duecentomila abitanti di Napoli e provincia, si tratta del primo, non del terzo. È la porzione di Under30 che conosce l’apparato di icone degli Anni Ottanta per sentito dire. Le hanno viste al massimo su YouTube. Sono cresciuti con la voce dei nonni e dei padri che raccontavano e idealizzavano una meravigliosa città lontana, irraggiungibile. Aspettano i Coldplay al San Paolo e noi gli parliamo di Pino Daniele. Ridono con una stand-up comedy e noi gli gettiamo in faccia Massimo Troisi. Hanno gridato gol con Cavani e Mertens, ma lo abbiamo compatiti perché non hanno visto Maradona.
Ora, la superiorità degli Anni Ottanta può sembrare schiacciante, ma negli Anni Ottanta i genitori trovavano che Pino Daniele non raggiungesse Sergio Bruni e Carosone, Troisi non era Totò, Maradona un usurpatore dell’amore meritato solo da Sivori. La colpa dei giovani è quella di essere giovani. La colpa degli Under30 napoletani era di non aver visto dal vivo le facce che abbiamo messo sui murales, e neppure uno scudetto.
Adesso ne hanno uno anche loro. Non solo. Da ieri pomeriggio, da quando il binario 22 era affollato di milanesi in maglia azzurra, è improvvisamente chiaro che se stavolta Napoli non ha niente da cui riscattarsi – come andiamo ripetendo – lo dobbiamo alle nostre trentenni e ai nostri ventenni. Hanno portato la città fuori dal suo isolamento. Ne conoscono radici e tradizioni, sanno le parole di ‘O Sole Mio ma guardano le serie in inglese. Partono per andare a lavorare all’estero, non emigrano. Riescono finanche a mangiare il sushi, senza lamentarsi che fuori non si trovano i friarielli. Firmano gli stessi appelli su Change di una ragazza di Berlino. Hanno preso il loro pezzo di Napoli e lo hanno fatto contagiare dal mondo, mentre prendono il mondo e lo contagiano di Napoli. Sono esattamente dentro lo spirito del tempo, la Generazione a cui si rivolge Netflix, che cerca storie dal forte sapore locale per parlare a centocinquanta Paesi. Il paradosso sublime è che si tratta della normalizzazione desiderata da Troisi, la Napoli auspicata da Eduardo. Ci sono arrivati loro al posto nostro, senza farne le uniche bandiere.
La prima volta che arrivò lo scudetto, lo striscione più famoso parlava alla polvere. Era appeso fuori al cimitero. Diceva ai morti: non sapete che vi siete persi. Qualcuno in giro ha provato a replicarlo. Non ha avuto la stessa fortuna. Perché questo scudetto non parla alle tombe ma alle culle, consegna metaforicamente le sorti di Napoli a una nuova generazione di napoletane e napoletani, ovunque siano, perfino se non sono di qui, perfino se sono di Mantova o di Milano. È la scrittura di un nuovo catalogo. È il racconto fresco di chi finora ha soltanto ascoltato, ma come il Fabietto Schisa di Paolo Sorrentino la tiene qualcosa da raccontare. È il loro turno. La Generazione Kvaratskhelia. Non possono far peggio di noi. Se poi casomai sbagliano, li facciamo mangiare da zio Vincenzo”.
Un sensazionale articolo di Angelo Carotenuto, pubblicato sul Mattino di Napoli il 06/05/2023
Lo scudetto per teenagers
