A cosa stai pensando?

Pochi giorni fa sono andata a vedere Parthenope, il nuovo film di Paolo Sorrentino. Tornare al cinema, abbandonare la mia comfort zone fatta di serie Netflix e partite di calcio, mi ha fatto bene, anche se c’era da affrontare l’imprevedibilità delle persone che si siedono accanto, spesso fonte di distrazione o, nel peggiore dei casi, di fastidio. Stavolta, tutto ok, una giovane coppia, silenziosa e concentrata. A un certo punto, forse eccitato dalla scena di sesso consumato tra due giovani (la cosiddetta grande fusione), lui si è avvicinato per rubarle un bacio, ma lei lo ha respinto scuotendo appena la testa. Evidentemente non voleva perdersi nemmeno un frame. E poi, poco prima, durante il funerale di Raimondo, l’avevo scorta intenta ad asciugarsi le lacrime, facendomi intuire che anche a lei il film stava provocando intense emozioni.

Uscita dal cinema, durante il tragitto per andare a riprendere l’auto al parcheggio, continuava a frullarmi in testa la domanda che si insinua per tutto il film e non mi ha abbandonato mai, anche per i successivi giorni.

A cosa stai pensando?

Sto pensando che potrei parlare, parlare, senza riuscire mai a cogliere in pieno il senso di questo film, un mare di immagini e significati che spinge a più di una riflessione. Lo hanno fatto già tantissimi critici, ed io non ho la pretesa nè soprattutto la competenza per cimentarmi in questo campo altamente minato.

Ci tengo, però, a sottolineare le magistrali interpretazioni fornite da alcuni attori napoletani del cast scelto da Sorrentino: Luisa Ranieri, una scoppiettante Greta Cool, che con la sua invettiva feroce contro Napoli e i napoletani mi è sembrata una versione più viscerale, anche se sicuramente spinta da motivazioni più personali che sociali, del famoso “fuitevenn”; Peppe Lanzetta, il cardinale Tesorone, di una teatralità sfacciata nella scena del mancato miracolo di San Gennaro, rappresentazione che è l’essenza stessa di Napoli, con i suoi giochi di luce e ombra, di fede e di dubbio; e poi il superlativo Silvio Orlando, nei panni del professor Marotta, che – seppur diviso tra il suo ingombrante vissuto privato e quello pubblico accademico – con la sua ironia riesce a strappare qualche risata in un film che non ha per niente la mission di divertire.

Detto questo, una riflessione personale ve la voglio comunque lasciare. Dopo che per buona parte del film veniamo ammaliati e storditi dalla personalità prorompente di Parhenope, che nel periodo giovanile si è mangiata la vita, quella che vediamo nelle scene finali è tutt’altro: una comune donna anziana, vissuta per più di 40 anni nel Nord Italia, prossima alla pensione. Seduta dietro la scrivania del suo ufficio nell’Università di Trento, raccoglie gli oggetti da riporre nella sua borsa, mentre una finestra di lato cristallizza uno sfondo fatto di montagne silenziose e statiche, l’esatto opposto del moto continuo causato dalle onde del mare di Posillipo o di Capri, da cui siamo stati avvolti per buona parte del film. A mio parere, il salto narrativo operato da Sorrentino è chiaro: non c’è altro da raccontare. Possiamo solo immaginare. Che gli anni vissuti da Parthenope lontano da Napoli siano stati una calma piatta assorbita nella quotidianità, una condizione cercata ed accettata, sì, ma inevitabilmente priva di incanto. Possiamo solo immaginarla camminare per le strade pulite di Trento, dove tutto avrà funzionato senza intoppi, e dunque finanche condividere le ragioni che l’hanno trattenuta lì, dopo aver vinto il concorso per una cattedra da professore ordinario: stabilità, ordine, tranquillità.

Per fortuna, come accade alla quasi totalità dei napoletani che per scelta o destino abbandonano la città, c’è un sentimento che non si può spegnere, qualcosa che spinge a tornare, a rivedere quei vicoli, a risentire l’adrenalina che solo Napoli sa offrire: la nostalgia. Sorrentino la cattura alla perfezione nella scena finale: Parthenope cammina con il trolley sul lungomare di Via Caracciolo, e all’improvviso viene sovrastata dai cori e dai colori dei tifosi che celebrano il terzo scudetto. L’apoteosi.

In quel momento, ho sentito qualcosa di simile a una piccola stretta al cuore, una lacrima che saliva. Non ho potuto fare a meno di pensare al protagonista del mio romanzo Chi ama non dimentica, anche lui travolto nel suo ritorno dagli Stati Uniti da una Napoli trionfante, per i festeggiamenti del primo scudetto.

Sorrentì, grazie! Chesta è stata proprio na malatia!

Forse è stato meraviglioso essere ragazzi… ma è durato poco!

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