Napoli è una città che mi ha insegnato a guardare in alto. Nel dedalo delle strette vie della Sanità, dove quelle stesse strade sono l’incisione delle acque millennarie scese dalla cima del monte – lacrime di sorgente che hanno scavato le gote rocciose dello stesso volto che le ha piante – nella Sanità, dove sulle strette vie sono cresciuti i palazzi, anch’essi partoriti dal monte, di quel tufo giallo che si cava dalle nostre colline – nella Sanità, inseguendo le immagini entrate negli occhi di un pittore inglese che qui è stato circa duecento anni fa, un modo di guardare come questo si rivela provvidenziale.
Lo sguardo verso l’alto cerca la luce che diventa lame nella verticale profonda dei vicoli bui; verso l’alto indaga, scopre particolari, dettagli nascosti, abbarbicati lungo le facciate dei palazzi – se lo sguardo non cercasse la luce, non vedresti i portali marmorei, il decorativismo barocco fatto di esagerati orpelli di piperno, non riusciresti a cogliere il nudo tufo giallo che torna a respirare sotto gli intonaci – i dettagli che gli occhi colgono cercando la luce del cielo, raccontano la storia dei nobili signori, dei semplici manovali; raccontano la storia che fu e mostrano la vita che è – da balconi abbelliti di stucchi seicenteschi ormai sgarrupati si affaccia la musica neomelodica assieme ad una signora che fuma commentando noi – forestieri e curiosi, “spagnuol’? Ingles’?”, si succedono rapide e ad alta voce le ipotesi in dialetto – la vita che è, fatta di panni stesi scossi dal vento silenzioso dei vicoli, ammantati dell’azzurro dei teli impermeabili che al vento si sollevano placidi, perchè in un giorno d’inizio Marzo come questo anche nella capitale del Sud c’è la minaccia di un cielo grigio di nuvole. Il cielo che lo sguardo cerca, seppur grigio, è l’ultimo baluardo, l’ultimo orizzonte, l’ultima immagine che gli occhi ricevono, dopo aver scalato la storia stratificata nei luoghi, dal gradino più profondo fino alla cima di questa terra antica che sotto i piedi conserva l’utero litico che ha partorito i manufatti, a piano terra mostra la potenza affiorante del masso tufaceo entro il quale gli uomini indiscriminatamente hanno scavato androni e scale – come sempre incidendo, spezzando e modellando, quasi nascondendo dietro alle facciate dritte dei palazzi ormai diroccati, quella imponenza fatta di tufo per raggiungere ancora una volta quella luce, quel cielo – seppur grigio, come oggi. Ma prima di cogliere il cielo, azzurro o grigio che sia, dopo l’ombra degli androni, il fresco silenzioso delle scalinate tagliate da raggi di sole che entrano dai finestroni – dopo le strette scale di piperno che sfidano il masso incidendolo, attende lo sguardo un sorprendente panorama, dove Napoli distesa si mostra nella vanità – si mostra ai monti immobili, lei, città viva e brulicante, ed ancora una volta così palesa a tutti la sua caratteristica immutabile: la contradditorietà e dualità dei luoghi, delle persone, delle vedute che si aprono proprio come immense cattedrali di tufo cavate all’apice dei vicoli stretti e bui. Città di colline e valloni, decumani dritti e vicoli tortuosi, palazzi barocchi incastonati tra auto e motorini, persone diffidenti senza mai dimenticarsi di essere cordiali – in tutto questo, c’è spazio anche per noi – noi, occhi affamati che cercano soggetti e suggestioni, realtà da plasmare e parole da scrivere – occhi affamati, vogliosi di scrutare i mille volti di Napoli, rivivere emozioni già vissute da qualcun altro, starci dentro in questa Napoli che custodisce senza nascondere, ma che, anzi, si offre placida a chi cerca senza domandare. I panni stesi ed i banchi della frutta, due ragazzini bicicletta e pallone, un signore affacciato alla finestra del basso che ci offre un caffè, e poi si raccomanda: “Attenzione alle macchine fotografiche, attenzione ai mariuoli”. Rispondo: “Napoli non ci fa paura”, ed è vero. Napoli è nostra, noi la viviamo, anche e soprattutto tramite iniziative come Nomicosecittà, che è stato tutto questo – è stato queste parole, è stato lo sguardo che non smette di guardare in alto, verso il cielo.
Ilaria Iodice, 2013