Devo premettere che mi sono approcciata alla lettura de L’orologio dalle lancette blu con molta curiosità, trattandosi dell’esordio letterario di una persona che conosco bene e che mai avrei immaginato potesse un giorno cimentarsi con la scrittura di un romanzo. E invece, è succieso! Ed eccomi qui a parlarvene.
Come scrive Giovanni Rivera nella prefazione al libro, Libeccio interroga in “maniera postuma la memoria di un padre “reticente” sul suo passato di guerra e di prigionia, ricostruendo l’intera vita, con le vicende precedenti e susseguenti quegli anni più densi e significativi”.
Lo stile dell’autore, fluido e chiaro, mi ha immediatamente catapultato nella storia di Giovanni e mi ha tenuta incollata alle pagine, che ho praticamente divorato in un week-end. Mi sono anche commossa per gli accadimenti vissuti e le decisioni prese dal protagonista del romanzo, che mi hanno ricordato il mio papà. Anche lui, come Giovanni, partì da Napoli per la guerra; anche lui, come Giovanni, fu fatto prigioniero dai tedeschi e rinchiuso in un campo di concentramento; ma soprattutto anche lui, come Giovanni, riuscì a sopravvivere alle avversità e a rientrare in patria.
A mio parere l’esaltazione dello spirito di adattamento e della forza di non arrendersi mai dei nostri padri sono i tratti salienti di questo libro, che ho molto amato e che vi consiglio di leggere.
Anche perché il tema dei ricordi, come ben sapete, mi è molto caro. Sembrano vecchi abiti appesi in un armadio che nessuno apre più, cimeli di un passato lontano, da rievocare solo in momenti di nostalgia. E invece, quando poi emergono richiamati dalle svolte impreviste della vita, si rivelano per quello che sono: compagni silenziosi e discreti del nostro cammino, che determinano – in modo per noi inconsapevole ma inevitabile – la rotta delle nostre scelte.