Oggi vi parlo di “Rosalie Lightning”, un viaggio nel regno dei morti per riuscire a cantare di una figlia che non c’è più.
E’ molto difficile trovare le parole per recensire questo straziante memoir di Tom Hart, fumettista e illustratore americano sposato con un’illustratrice e padre di una bella bimba bionda: Molly Rose, morta per una di quelle inesplicabili malattie infantili all’età di due anni.
La sera prima era molto agitata e la mattina dopo era morta. Tom Hart lo dice subito e senza giri di parole, senza introduzioni, la realtà cruda e drammatica di una storia avvenuta una manciata di anni fa dall’altro capo del pianeta ti colpisce come un ceffone a cui non riesci a credere. Forse è anche per questo motivo che per tutto il tempo speri che una risposta ci sia: aveva una malformazione, una malattia fulminante, una qualsiasi cosa irrimediabile. Tuttavia Hart non dà spiegazioni lasciando intendere che fosse una disgrazia non solo incomprensibile, ma anche priva di un motivo a cui attaccarsi.
Rosalie è morta. Punto.
Da lì parte un abisso dal quale Hart e sua moglie Leela cercano di risalire dichiarando in qualche modo guerra al lutto. Non si lasceranno divorare dal mostro oscuro che si è preso la loro bambina, loro ce la faranno, attraverseranno la terra dei morti mentre sono ancora in vita, proprio come Orfeo e ne usciranno per riveder le stelle.
Non è una storia facile, ma paradossalmente non è privo di speranza.
Il dolore, si dice, non ha amici. E invece, Hart e sua moglie risalgono dal baratro proprio grazie all’amore incondizionato di chi li circonda. Una rete di amici disposti a tutto: a ospitarli in casa, ad ascoltarli, a non lasciarli mai soli, a non permettere che loro pretendano di rimanere soli. Mentre quella rete li sostiene, i due cercano un modo per risalire, per capire se in effetti questo esista. Così, giornate senza senso, come un mare senza vento, come perle di collane di tristezza (cit.) si mescolano alla ricerca spasmodica di un simbolismo panteistico che in qualche modo sopperirebbe alla loro mancanza di fede (non ci sono molti riferimenti religiosi o mistici nel libro, la qual cosa lo rende ancora più umano): chiunque li incontri ha la storia di un familiare morto in giovane età da portargli, un modo paradossale per incoraggiarli e dir loro che la vita sfortunatamente o fortunatamente non rimane impantanata in quell’istante. Cercano risposte nei paesaggi, nelle ferite dei loro amici, nei presagi immaginari che si trovano ad elencare cercando di rappezzare i ricordi della loro ultima notte con la loro bambina. E su tutto troneggia una casa che non riescono a vendere, un enorme parassita da cui non sembra esserci liberazione: poco prima della morte di Rosalie avevano deciso di terminare la loro vita di indigenza a New York per trasferirsi in Florida, ma il loro appartamento appare invendibile per una serie di assurdi motivi.
C’è un parallelismo maledetto tra la casa in cui è morta la loro bambina e il fatto che la terra desolata del lutto non abbia un confine e una fine. Poi ti ritrovi a pensare che li ha tenuti ancorati al suolo terrestre, alla vita quotidiana che non ha rispetto per il dolore e va avanti imperterrita, impedendo loro di vagare in un cielo notturno e potenzialmente fatale.
Non ci sono molte parole per descrivere un dolore così grande e in realtà è questo il motivo per cui, nonostante l’immensa tristezza che emana questa storia, dovreste leggerla: perché Hart è riuscito dove fallì Orfeo: ha cantato per la sua amata e l’ha riportata dal regno dei morti, perché noi potessimo conoscerla. E lo ha fatto per chi, incapace di cantarla come lui, potesse trovarvi la rappresentazione di un dolore che altrimenti blocca, per sempre, nello stesso regno di chi ci ha abbandonato contro la sua volontà e nel quale non possiamo sostare perché non gli apparteniamo, anche se lo vorremmo disperatamente.