Sono sempre stata impressionata dalla forza delle parole di una bellissima poesia di William Ernest Henley dal titolo “Invictus” ovvero “non-vinto”. Questa poesia è un vero e proprio inno alla fede, alla libertà e alla resistenza dell’uomo di fronte ai momenti più cupi della propria esistenza e leggendola, è facile capire perché nel tempo è stata fonte di ispirazione per tante persone e perché ancora oggi continua ad essere molto apprezzata.
Per comprenderne a fondo le parole, però, bisogna conoscere la storia e le circostanze in cui Henley scrisse questa poesia. La sua vita, seppur breve (morì all’età di 53 anni), fu messa più volte a dura prova da una grave malattia che lo costrinse a lunghi e travagliati periodi di ricovero in ospedale. A 12 anni, infatti, si ammalò di una grave forma di tubercolosi alle ossa ma nonostante la malattia riuscì a continuare gli studi e ad intraprendere con successo la carriera di giornalista ed editore a Londra. All’età di 25, quando la tubercolosi era visibilmente progredita, fu necessaria l’amputazione di una gamba sotto al ginocchio per garantirgli la sopravvivenza. Henley continuò a vivere per circa 30 anni con una protesi artificiale e proprio questa sua caratteristica ispirò al suo amico Robert Louis Stevenson il personaggio di Long John Silver nell’Isola del Tesoro.
Qualche anno dopo l’amputazione, i medici scoprirono che l’infezione aveva contagiato anche l’altra gamba per cui, occorreva di nuovo una recisione. Henley però questa volta non si diede per vinto, non accettò di essere operato e si affidò alle cure del Dott. Joseph Lister, che da poco aveva inventato la medicina antisettica. Le cure innovative di Lister riuscirono a salvarlo dalla seconda amputazione ed è proprio in questi tre anni di cure e di degenza in ospedale (precisamente nel 1875) che Henley scrisse la poesia, in cui ogni verso trasuda di libertà, forza, coraggio e potere. La sua è un’anima invincibile, libera, priva di pregiudizi e di paure; un’anima che supera tutte le avversità e va avanti anche quando niente sembra avere senso.
Per questo le sue parole possono essere come una lanterna nella nostra vita quotidiana, come lo furono per Nelson Mandela, imprigionato per la sua lotta anti-razzista contro l’apartheid, che per sua stessa ammissione riuscì a resistere anni in galera soprattutto grazie alla lettura della grandiosa Invictus.
Non aggiungo altro. Provate a leggere queste quattro strofe e capirete cosa intendo.
Dal profondo della notte che mi avvolge,
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio gli dèi qualunque essi siano
per l’indomabile anima mia
Nella feroce morsa delle circostanze
non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Oltre questo luogo di collera e lacrime
incombe solo l’Orrore delle ombre,
eppure la minaccia degli anni
mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la vita,
io sono il padrone del mio destino:
io sono il capitano della mia anima.
Voglio dire ancora che questa poesia è come una specie di promemoria, che ci ricorda come ognuno di noi abbia qualcosa di solido dentro di sé che sopravvive a qualsiasi dolore e rottura, perché anche se il nostro corpo fisicamente può piegarsi o “rompersi”, il nostro spirito, se lo vogliamo, non verrà mai intaccato da nulla.